Il concetto di inclusione A cercarla sul dizionario, la parola inclusione indica letteralmente l’atto di includere, cioè di inserire, un elemento in un gruppo. In ambito sociale, essere inclusi significa soprattutto sentirsi accolti: appartenere a un gruppo di persone, a una società, godere pienamente di tutti i diritti e le opportunità che questa appartenenza comporta. L’inclusione, dunque, è radicalmente diversa sia dall’assimilazione sia dall’integrazione. Per essere inclusi nel gruppo non deve essere necessario adeguarsi, modificare le proprie caratteristiche personali per essere uguali agli altri. Per dirla con le parole del filosofo Jürgen Habermas: “Inclusione non significa accaparramento assimilatorio, né chiusura contro il diverso. Inclusione dell’altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti: anche, e soprattutto, a coloro che sono reciprocamente estranei o che estranei vogliono rimanere”. (L’inclusione dell’altro, 2013)Le cause dell’esclusione sociale Una società inclusiva, dunque, deve eliminare ogni forma di discriminazione. Tra gli individui, infatti, ci sono differenze che possono portare all’esclusione sociale: la razza, il sesso, la cultura, la religione, la disabilità. La discriminazione per uno di questi motivi può avvenire in ambito lavorativo, per esempio se un datore di lavoro decide di assumere o non assumere un candidato in base al sesso, in ambito politico, per esempio se un gruppo etnico non è adeguatamente rappresentato nelle sedi istituzionali, o in ambito sociale, se l’accesso a servizi fondamentali non viene garantito alle persone con disabilità. L’esclusione sociale, dunque, è l’impossibilità per un individuo di partecipare pienamente alla vita della comunità. Può derivare anche da condizioni di forte deprivazione e disagio. La mancanza di risorse economiche adeguate spesso comporta un accesso limitato ad ambiti sociali quali l’educazione, l’assistenza sanitaria, il lavoro, l’alloggio, la tecnologia e la vita politica e culturale. Una posizione economica marginale porta facilmente all’isolamento sociale e alla perdita del senso di appartenenza. Povertà ed esclusione, dunque, sono strettamente legati e spesso l’una è causa dell’altra. E l’impoverimento riguarda anche l’aspetto relazionale: la precarietà economica conduce alla solitudine, alla carenza culturale, alla mancanza di legami familiari e sociali, alla marginalità. Secondo gli ultimi dati Istat, in Italia le persone in gravi difficoltà economiche sono 5.600.000, il 9,4% della popolazione, pari a oltre 2 milioni di famiglie. E il Rapporto 2020 su povertà ed esclusione sociale in Italia della Caritas sottolinea che durante l’emergenza Covid-19 l’incidenza dei “nuovi poveri”, cioè di quanti hanno chiesto aiuto per la prima volta, è passata dal 31 al 45%.Soggetti e categorie a rischio esclusione Discriminazioni e povertà possono dunque compromettere la possibilità di partecipare pienamente alla vita sociale. Questo provoca un senso di insicurezza, di vulnerabilità, di precarietà e di inadeguatezza che condanna le persone a una marginalità sempre più estrema. Nelle società contemporanee le categorie maggiormente vulnerabili e a rischio discriminazione sono le persone senza fissa dimora, le persone con disabilità, i detenuti o ex detenuti, le persone con dipendenze, gli anziani, gli immigrati, i rom, le famiglie numerose o monogenitoriali, i minori e le donne. L’adozione di interventi economici e sociali efficaci mirati a favorire l’inclusione è una priorità a livello internazionale. L’obiettivo numero 1 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (SDG1), per esempio, è proprio la sconfitta della povertà. L’ONU chiarisce che “la povertà va ben oltre la sola mancanza di guadagno e di risorse per assicurarsi da vivere in maniera sostenibile. Tra le sue manifestazioni c’è la fame e la malnutrizione, l’accesso limitato all’istruzione e agli altri servizi di base, la discriminazione e l’esclusione sociale, così come la mancanza di partecipazione nei processi decisionali. La crescita economica deve essere inclusiva, allo scopo di creare posti di lavoro sostenibili e di promuovere l’uguaglianza”. L’SDG 10, invece, impegna a “potenziare e promuovere l’inclusione sociale, economica e politica di tutti, a prescindere da età, sesso, disabilità, razza, etnia, origine, religione, stato economico o altro; ad assicurare pari opportunità e ridurre le disuguaglianze nei risultati, anche eliminando leggi, politiche e pratiche discriminatorie e promuovendo legislazioni, politiche e azioni appropriate a tale proposito”.Cambio la prospettiva: Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute Tra le categorie maggiormente a rischio di esclusione sociale ci sono le persone con disabilità. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2001, ha approvato un nuovo strumento, chiamato ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute. È stato ideato per offrire un modello di riferimento internazionale per la descrizione della salute e riguarda tutti. In particolare, ha consentito un cambio di prospettiva nel considerare la disabilità non più come una condizione di minorazione a sé stante, ma inserita nel contesto ambientale e sociale. Nella nuova prospettiva, chiamata bio-psico-sociale, l’accento viene spostato dalle minorazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali di una persona alle “barriere” mentali, sociali e architettoniche che possono rendere quelle minorazioni effettivamente degli handicap, come ostacoli alla piena partecipazione e uguaglianza. La classificazione ICF sottolinea il fatto che la disabilità è un’esperienza umana universale, che tutti possono vivere nel corso della loro esistenza. Il 24 marzo 2021, nel corso dell’audizione presso il Comitato Tecnico Scientifico dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, il presidente dell’Istat ha fornito un quadro della situazione nel nostro Paese, aggiornato al 2019. Le persone che soffrono di gravi limitazioni che impediscono loro di svolgere attività abituali sono il 5,2% della popolazione. Tra loro, quelle che riferiscono di essere in cattive condizioni di salute sono il 61%, contro lo 0,6% nel resto della popolazione. Gli anziani sono i più colpiti: quasi un milione e mezzo di ultra 75enni si trovano in condizione di disabilità, un milione e 400mila non sono autonomi nella cura della propria persona, poco meno di un terzo non è in grado di svolgere in autonomia le attività domestiche più pesanti. La condizione di disabilità acuisce le differenze: la quota di persone con disabilità che hanno raggiunto i titoli di studio più elevati (diploma di scuola superiore e titoli accademici) è pari al 30,1% tra gli uomini e al 19,3% tra le donne, a fronte del 55,1% e 56,5% per il resto della popolazione. Tra i 15 e i 64 anni risulta occupato solo il 31,3% di coloro che soffrono di limitazioni gravi, contro il 57,8% degli altri. Oltre 600.000 persone con limitazioni gravi vivono in una situazione di grande isolamento, senza alcuna rete su cui poter contare in caso di bisogno; di queste, ben 204.000 vivono completamente sole. La limitazione grave costituisce infine un ostacolo alla partecipazione culturale: solo il 9,3% delle persone che ne soffrono va frequentemente al cinema, al teatro, a un concerto o visita un museo durante l’anno. Nel resto della popolazione il dato si attesta al 30,8%.Progetti di inclusione e integrazione per evitare l'esclusione sociale Il 28 luglio 2021 la Rete della Protezione e dell’Inclusione Sociale, presieduta dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, ha approvato il nuovo Piano Nazionale degli Interventi e dei Servizi Sociali per il triennio 2021-2023. La Rete è nata nel 2017 per ridurre le fortissime disparità territoriali nell’accesso ai servizi e nella fruizione dei sostegni. Ora la Rete dovrà lavorare alla riforma del sistema di misure per la non autosufficienza, prevista per il 2022. Altre riforme sono previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), approvato nel mese di aprile 2021. Primo fra tutti, il Family Act, che contiene misure per il sostegno alle famiglie con figli, per la promozione della partecipazione al lavoro delle donne, per il sostegno ai giovani. E poi la Legge quadro sulla disabilità, volta a rafforzare l’offerta dei servizi sociali, semplificandone l’accesso, e a promuovere progetti di vita indipendenti.Educare all’inclusione sociale Naturalmente la scuola riveste un ruolo fondamentale nell’insegnare ad accogliere gli altri, a riconoscere e valorizzare le differenze, a fare squadra. Un’educazione inclusiva può prevenire discriminazioni e soprusi e può garantire alle persone più svantaggiate pari opportunità di formazione e una partecipazione piena alla vita della propria comunità. Per esempio, secondo una ricerca pubblicata nel 2018 dall’Agenzia Europea per i Bisogni Educativi Speciali, l’educazione inclusiva aumenta le opportunità di amicizie strette tra studenti con e senza disabilità, aumenta la probabilità che le persone con disabilità vengano impiegate e aumenta le opportunità di vita indipendente. In Italia, la direttiva del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca del 27 dicembre 2012 individua diverse categorie di BES (Bisogni Educativi Speciali) alunni con disabilità, disturbi dell’apprendimento, deficit del linguaggio o della coordinazione motoria, o che vivono in svantaggio socio-economico, linguistico o culturale. La direttiva stabilisce che la scuola deve predisporre per ciascuno di essi un Piano Didattico Personalizzato (PDP) che può prevedere l’uso di strumenti di supporto, sia digitali sia analogici, e prove differenziate. La didattica deve essere dunque personalizzata, adattandosi alle necessità e alle caratteristiche di ciascuno studente e ai diversi stili di apprendimento. Solo così ogni bambino si sentirà davvero accolto e compreso e potrà esprimere al meglio le proprie potenzialità. In questa ottica, la mancanza di successo scolastico non dipende da un deficit dell’alunno, ma da carenze dell’organizzazione scolastica, che non ha saputo rimuovere tutti gli ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione.L’inclusione lavorativa La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità riconosce il diritto al lavoro e all’opportunità di mantenersi attraverso la propria attività lavorativa all’interno di un ambiente di lavoro inclusivo e accessibile. Gli Stati, compresa l’Italia che ha ratificato la Convenzione nel 2009, si impegnano a rimuovere ogni forma di discriminazione sul lavoro e a garantire condizioni lavorative giuste e favorevoli, comprese l’eguaglianza di opportunità e remunerazione e i diritti sindacali. Lavorare è, per ciascuna persona, un diritto che ha un impatto determinante sulla qualità della vita. Nell’ordinamento italiano, già con la Legge 68/1999 è stato introdotto l’istituto del “collocamento mirato”, che considera la persona con disabilità cittadino tra i cittadini, con pari diritti e doveri. Prevede il collocamento, all’interno delle percentuali di assunzione obbligatoria, delle persone con disabilità fisiche, psichiche o sensoriali e dei portatori di handicap intellettivo in base alla loro formazione pregressa, alle loro capacità acquisite e tenendo conto delle potenzialità di crescita professionale. L’obiettivo è superare il collocamento assistenzialistico per raggiungere la consapevolezza che in un ambiente di lavoro inclusivo ogni individuo può esprimere il meglio di sé. Se ciascuno si sente sicuro e protetto, potrà certamente contribuire in maniera più creativa ed efficiente alla crescita economica della propria azienda. Un esempio di questo approccio sono le numerose esperienze di agricoltura sociale in Italia, nate per integrare nell’attività agricola una serie di iniziative di carattere sociosanitario, educativo, di formazione e inserimento lavorativo dirette a fasce di popolazione svantaggiate o a rischio di marginalizzazione.Fare comunità: amicizia, cultura, sport Scuola e lavoro sono certamente i capisaldi dell’inclusione sociale, ma per vivere pienamente la vita della propria comunità sono altrettanto importanti le relazioni, le amicizie, il tempo libero, la cultura, lo sport. La promozione di percorsi e azioni mirate a favorire il dialogo sociale, l’inclusione e il contrasto alle discriminazioni è ad esempio l’obiettivo del recente Accordo di programma tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e l’Autorità di Governo delegata in materia di Sport. Tra le varie iniziative c’è la realizzazione di un programma per la promozione dell’accesso alla pratica sportiva per bambini e ragazzi provenienti da famiglie in condizioni di disagio economico, compresi i migranti. Un altro esempio è il progetto Bandiera Lilla, partito alcuni anni fa dalla Liguria, si sta diffondendo in tutta Italia. Premia quelle località del nostro Paese che prestano particolare attenzione a una serie di parametri che possono promuovere e incentivare un turismo fruibile da parte di tutti.